Il Tramonto a Montmajour di Van Gogh: quando un museo torna sulle proprie decisioni
Una storia avvincente e sorprendente, intrigante come un romanzo noir di Michel Bussi. Il racconto di un Van Gogh rifiutato, poi fortunatamente riconosciuto grazie al prezioso lavoro degli esperti
La storia di quest’opera inizia nel 1908, quando un industriale, il norvegese Christian Nicolai Mustad, erede di una nota dinastia che nel 1832 ha creato la più grande industria di articoli da pesca al mondo, comprò un quadro come originale di Vincent van Gogh.
L’acquisto gli fu consigliato dallo storico dell’arte Jens Thiis, che proprio quell’anno fu eletto direttore del Museo Nazionale di Oslo, quindi col supporto di una voce autorevole. Il successo dello sfortunato pittore olandese ormai in quegli anni stava diffondendosi, e Christian Mustad era molto soddisfatto del suo acquisto, tanto da collocarlo nel posto d’onore della sua abitazione.
Ma il sogno si infranse quando al collezionista fu detto che quel quadro non era un originale di Van Gogh ma opera di qualcun altro. Non si sa chi fu il latore di tale sventurata verità: se, come racconta la famiglia, l’ambasciatore francese in Svezia in visita a casa Mustad o piuttosto, secondo gli studiosi, il console norvegese a Parigi, Auguste Pellerin, tra i più grandi collezionisti di Impressionisti dell’epoca, soprattutto Monet e Cezanne.
Christian Nicolai Mustad non prese bene questa rivelazione, anzi, tale fu la sua delusione che, staccato il quadro dal posto d’onore, lo confinò nella sua soffitta, dove rimase fino alla sua morte nel 1970.
Con l’esecuzione dell’eredità, il quadro finalmente riapparve e fu venduto dagli eredi a un collezionista privato. Non convinto del declassamento a anonimo, ma invece certo dell’originale paternità, il nuovo proprietario lo portò al Museo Van Gogh nel 1991 per far autenticare il quadro, ma il museo rispose, con una motivazione ufficiale, che il quadro non era di mano di Van Gogh soprattutto perché non era firmato.
La sentenza sembrò senza appello. A posteriori, possiamo ipotizzare che forse ci furono più elementi che portarono a quel verdetto, tra i quali ci potrebbe essere stato il carattere “di transizione” dell’opera all’interno della produzione di Van Gogh, con una tecnica diversa dalle altre opere dipinte subito dopo.
Fu una risposta terribile quella del museo ma per fortuna il proprietario non si disfece del quadro, o, peggio ancora, non lo distrusse, come invece alcuni comitati di autenticazione richiedono oggi in seguito all’emissione di un’opinione di falsità.
Neppure successe, per fortuna, come altri comitati di autenticazione fanno, che il museo di Amsterdam segnasse il quadro in modo indelebile come un falso.
Così il proprietario si riprese l’opera e ha aspettato, persistendo nella sua ricerca, fino al 2011, quando in maniera temeraria ha riportato il quadro al Museo Van Gogh. E questa volta il museo, con grande saggezza, ha deciso di riconsiderare la sua opinione e ha accettato di esaminare l’opera di nuovo.
Non tutti gli archivi e le fondazioni hanno l’umiltà e il coraggio di rivedere le loro posizioni, ma in questo caso il museo olandese decise di condurre un’indagine approfondita per riesaminare l’autenticità del dipinto, soprattutto perché rispetto al 1991 poteva contare su nuove e diverse analisi tecniche.
L’indagine durò due anni, e la storia che ne venne fuori era completamente diversa. Si scelse di mettere insieme e seguire contemporaneamente le tre modalità di ricerca a disposizione, e cioè l’analisi scientifica dei materiali, la ricerca d’archivio sulla provenienza, e la sensibilità attributiva. Anche se, è necessario dirlo, le nuove tecnologie nelle analisi sono state determinanti insieme al ritrovamento di nuove lettere di Vincent al fratello. E i risultati non si fecero attendere.
La prima analisi scientifica riguardò il colore, e dimostrò che il dipinto era stato realizzato con gli stessi pigmenti che il pittore usava in quel periodo. Uno di questi colori, il blu cobalto, è determinante nel caso di Van Gogh, poiché cominciò a usarlo solo nell’estate del 1887, delimitando così un lasso di tempo probabile di realizzazione, che coincideva con la frequentazione di Van Gogh di Arles e dei suoi dintorni. Questa prima scoperta era davvero promettente, ma non sufficiente per dimostrare l’autenticità del dipinto, poiché esistevano già dei falsi che utilizzavano gli stessi pigmenti, che erano tutti disponibili in commercio.
Allora si approfondì la ricerca, e un secondo esame fu condotto sulla trama della tela, confrontata con un database esistente delle trame e orditi delle tele note utilizzate dall’artista. Il risultato fu che la trama della tela analizzato è risultata compatibile con una utilizzata almeno per un altro dipinto di Van Gogh dello stesso periodo. E non solo la tela, ma anche la preparazione applicata sulla tela stessa si è rivelata dello stesso tipo in entrambi i dipinti. Un altro risultato di compatibilità, ma non una vera garanzia di autenticità.
Parallelamente si era seguita anche una strada più storico-artistica, prendendo in esame il misterioso numero 180 scarabocchiato sul retro della tela, che incredibilmente nessuno prima aveva mai considerato. Questo numero in realtà corrisponde a un numero nella famosa lista d’inventario che Theo van Gogh aveva stilato delle opere di suo fratello dopo la sua morte, annotando anche il titolo dopo il numero. Il dipinto n. 180 della lista in effetti fino a quel momento non aveva trovato corrispondenza con un’opera, tanto da far pensare agli studiosi che fosse disperso. Ecco finalmente un indizio importante! Il numero a quel punto ha permesso agli studiosi anche di ricostruire tutta la catena di provenienza del dipinto, fino ad allora frammentaria ma elemento cruciale in un’attribuzione: il dipinto dunque era stato nella collezione del fratello Theo che però morì nel 1901, sei mesi appena dopo la morte di Vincent. Fu la sua vedova a venderlo al mercante d’arte parigino Maurice Fabre, dal quale probabilmente lo comprò nel 1908 l’industriale norvegese Christian Nicolai Mustad, dal quale tutta la storia ebbe inizio.
Infine, ancora la ricerca storico-artistica ha chiuso il cerchio grazie all’importantissimo ritrovamento di un nuovo gruppo di lettere di Vincent a suo fratello, e tra queste una datata 4 luglio 1888, in cui l’artista descrive la scena esatta del quadro in questione: “Ieri, al tramonto, ero su una brughiera sassosa, dove crescono querce molto piccole e contorte, sullo sfondo una rovina sulla collina, e campi di grano nella valle. Era romantico, non poteva esserlo di più, à la Monticelli, il sole riversava i suoi raggi giallissimi sui cespugli e sul terreno, assolutamente una pioggia d’oro. E tutte le linee erano belle; tutta la scena aveva una nobiltà affascinante”. Questa bellissima lettera ha permesso agli studiosi di confermare finalmente il soggetto, la data e il luogo di realizzazione del quadro: Tramonto a Montmajour, dipinto il 3 luglio 1888, il giorno precedente alla lettera. La scena raffigurata era il momento del crepuscolo nel paesaggio di campi di grano di Montamajour in Provenza, con l’omonima abbazia benedettina in lontananza. Pare che Van Gogh fosse particolarmente affascinato dal paesaggio di Montmajour, con i suoi contrasti tra il pianoro sottostante e lo spuntone roccioso, tanto che sono numerosi i suoi dipinti con le rovine del monastero, gli uliveti, le rocce che sbucano dalla collina. Era questa un’opera ambiziosa come dimostrano le grandi misure (93,3 x 73,3 cm), una delle prime dipinte dopo il suo trasferimento a Arles, nella quale riponeva grandi aspettative. Proprio con questo lavoro infatti voleva presentarsi come poeta tra i pittori paesaggisti e rimase profondamente deluso nel constatare che, come da lui stesso riconosciuto, non fosse stato capace di superare determinati “ostacoli” in modo convincente. Così ben presto il pittore la mise in disparte, arrivando a considerarla “un fallimento”. È sicuramente un lavoro sperimentale dell’artista, dove lo si vede combattere con la fretta, che però rappresenta un’opera chiave nel suo percorso, che proprio dopo questa cominciò a crescere. Infatti è proprio durante il suo soggiorno a Arles, ove si trasferì il 20 febbraio 1888, che Van Gogh abbandonò le tecniche impressioniste utilizzate a Parigi per sperimentare un uso libero del colore come lui stesso scrive nell’aprile dello stesso anno all’amico pittore Bernard: “Non seguo alcun sistema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali. Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là, angoli totalmente incompiuti, ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, per non fare la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica […] tutto ciò che sarà suolo parteciperà di un unico tono violaceo, tutto il cielo avrà una tonalità azzurra, le verzure saranno o dei verdi blu o dei verdi gialli, esagerando di proposito, in questo caso, le qualità gialle o blu”.
Con tutte le nuove prove raccolte, nel 2013 il Museo Van Gogh ha deciso di ribaltare pubblicamente la sua attribuzione del 1991, attribuendo dunque senza ombra di dubbio al grande artista olandese la tela. È stata la prima opera di Van Gogh scoperta “ex novo” dal 1928 e il direttore del museo, Axel Rüger, l’ha descritta come “un’esperienza che si vive una sola volta nella vita. Il quadro prima d’ora non era mai stato visto in pubblico, né ritoccato da professionisti. Mancava la vernice finale e non era stato neanche incorniciato. È proprio una cosa pura. E’ già una rarità il fatto stesso di poter aggiungere un nuovo pezzo all’opera dell’artista ma quel che rende la scoperta ancor più eccezionale è che siamo di fronte a un lavoro di transizione, a un dipinto di grandi dimensioni, del periodo in cui l’artista era al culmine della carriera. Un evento di tale portata non s’era mai avuto nella storia del Van Gogh Museum“.
Dunque, sulla scorta dell’avvincente storia di quest’opera, possiamo sicuramente affermare che nella vita a volte vale la pena dare una seconda occhiata!
