Le opere sottratte agli ebrei dai nazisti, i marmi del Partenone, i bronzi del Benin ci pongono di fronte la necessità di affrontare il passato coloniale, la responsabilità delle razzie e il valore dell’integrità culturale. Si chiede la loro restituzione ai legittimi proprietari, in quanto trafugati, venduti illegalmente, sottratti con l’inganno o con la forza. Sono discussioni di grande attualità, del resto guerre e saccheggi sono ancora in corso. Ma quanto indietro possiamo andare nello stabilire chi è il legittimo proprietario? Su quali basi possiamo fondare queste richieste?
Probabilmente molti conoscono Rodolfo Siviero come il primo agente segreto dell’arte, che, grazie a un incarico ufficiale ricevuto nell’aprile 1945, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, ottenne il suo primo clamoroso successo riportando a Firenze di più di 600 opere degli Uffizi e della Palatina che i nazisti avevano preso e portato fino al Sud Tirolo.
Ma forse non tutti sanno che il suo contributo più grande fu probabilmente quello di introdurre la forza della ragione e della cultura nella tutela internazionale del patrimonio artistico, cancellando antichi diritti come quello del saccheggio e della preda da parte del conquistatore, e ribadendo il valore dell’opera d’arte come appartenente al suo popolo.

L’azione più importante di Siviero si compì nel 1948, e fu un’azione diplomatica e istituzionale. In quell’anno infatti riuscì a far modificare l’articolo 77 del Trattato di Pace firmato dall’Italia e dalle forze alleate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Quell’articolo inizialmente regolava la restituzione all’Italia dei beni artistici trafugati, e fissava la data dell’armistizio come limite dopo il quale era legittimo richiedere le opere. In questo modo venivano però escluse tutte quelle prese prima, soprattutto quelle portate via grazie alle pressioni dei gerarchi fascisti, che avevano derogato dalle leggi nazionali.
Siviero riuscì a far spostare la data al 1937, convincendo così gli Alleati a modificare l’idea che anche le opere acquistate e pagate fossero regolari, facendo invece affermare il principio della legalità sul sopruso dell’acquisto dei gerarchi nazisti.
Infatti, insieme a tutte le crudeltà e i delitti che il nazismo andava compiendo in Europa, ci fu anche la tattica predatoria del regime verso i patrimoni artistici. Tale tattica fu di due tipi, una “ufficiale” e una di guerra.

Del primo modus operandi è esemplare la vicenda del Discobolo di Mirone dei Lancellotti, capolavoro che era protetto dall’espatrio fin dai tempi dello Stato Pontificio. Ma è il Führer in persona a volerlo: nel 1937 invia in Italia il principe Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, per procacciare il massimo numero possibile di capolavori per il futuro museo del Führer a Linz. La Cancelleria del Reich creò per il principe un conto speciale presso l’ambasciata tedesca a Roma, e tra il ‘40 e il ‘41 gli acquisti di opere d’arte in Italia da parte dei tedeschi aumentarono a tal punto che il governo fascista arrivò a vietarne la vendita agli stranieri nel settembre 1941. Ma ormai il danno era stato fatto.
Nel caso del Discobolo, il ministro competente Giuseppe Bottai provò a resistere alle insistenze del principe tedesco, ma intervenne personalmente Galeazzo Ciano, così che Bottai alla fine dovette autorizzare la vendita e l’espatrio. È l’inizio della fine. Ciano favorì con tutti i mezzi l’acquisizione di opere d’arte da parte dei gerarchi nazisti, e Bottai al contrario provò in varie occasioni a fermarlo o quantomeno a limitare questo tipo di operazioni.
L’altro bulimico organizzatore di questi furti fu Hermann Göring, che nel dicembre 1942 venne personalmente a Firenze in cerca di prede. È lui la mente di tutto, soprattutto dell’altro metodo di appropriazione delle opere, quello che nel 1939 aveva messo in atto in Polonia, dove sequestrò tutto, ma proprio tutto, il patrimonio artistico, e lo stesso fece poi in Francia dal ‘42 e dal ‘43 in Italia.
Dal novembre 1943 fu attivo il Kunstshutz, un ufficio tedesco voluto da Göring presente sia a Roma che a Firenze (qui aveva sede presso il Kunsthistorisches Institut in piazza Santo Spirito), ente che ufficialmente doveva proteggeva l’arte italiana, ma che in realtà organizzava la spoliazione sistematica di beni artistici, bibliografici e archivistici italiani, spedendoli verso il Linz Museum di Hitler e soprattutto verso la collezione privata di Göring.
Esemplare dei risultati dell’azione di Siviero è la fine della vicenda del Discobolo Lancellotti, di cui abbiamo scritto sopra, che Siviero riuscì a recuperare a dispetto degli intellettuali tedeschi, che nel 1948 scrissero una lettera di protesta al presidente americano Truman affinché la statua rimanesse in Germania perché acquistata “regolarmente”. A cotanta sfacciataggine rispose nientemeno che Benedetto Croce, che con veemenza rimproverò a questi intellettuali il loro silenzio sul nazismo e sulle sue politiche razziali. Così il Discobolo rientrò in Italia nel novembre del 1948 e Siviero acquisì una grandissima popolarità. In totale furono circa 3.000 le opere da lui riportate in Italia, come la Danae di Tiziano di Capodimonte regalata nel ’44 a Göring per il suo compleanno, l’Apollo da Pompei, l’Hermes di Lisippo, la Leda del Tintoretto e molte molte altre.

Immaginate cosa sarebbe il nostro patrimonio senza il suo intervento.
Le autorità statunitensi, dopo una prima fase di collaborazione con Siviero e con l’Italia, cominciarono poi a stringere sulle restituzioni, poiché non volevano “punire” troppo la Germania, che invece volevano usare in chiave anti sovietica. Ancora una volta, grazie alla sua azione diplomatica, Siviero raggiunse un nuovo notevole successo. Nel 1953 il cancelliere tedesco Adenauer e il primo ministro italiano De Gasperi firmarono un accordo per istituire due delegazioni nazionali per la restituzione delle opere d’arte, in ottemperanza all’articolo 77 del Trattato di Pace, e a capo di quella italiana fu nominato proprio Siviero con la carica di ministro plenipotenziario.
Ma esattamente, chi era Rodolfo Siviero e quale era la sua storia?
Siviero è stato una strana figura di servitore dello Stato che riunì in sé le caratteristiche dell’investigatore, dell’agente segreto, dell’intenditore d’arte e dell’uomo di cultura. È stato un personaggio polemico, litigioso, con schiere di amici devoti e di altrettanti nemici accaniti.
Nato a Guardistallo di Pisa il 24 dicembre 1911, nel 1924 si trasferì per il lavoro del padre a Firenze dove però non venne accettato né dal liceo Michelangelo nel ‘24 né dal liceo Galileo nel ‘28 visti i brutti risultati delle prove di accesso, e allora decise di formarsi da autodidatta.
Nel 1936 probabilmente ci fu il passaggio decisivo della sua vita: diventò una spia del SIM, il primo strumento di intelligence militare italiano al servizio del regime fascista. Con una borsa di studio in storia dell’arte avuta a Firenze dove si era iscritto come studente, venne spedito dalla fine del ‘37 più volte in Germania, a Erfurt e a Berlino, per spiare gli alleati nazisti, fino a quando nel 1938 venne espulso come persona non gradita. Non si sa in seguito a quale evento avvenne questa espulsione; Siviero nei suoi diari dirà che in quel momento aveva cominciato a prendere contatti con gli angloamericani e, scoperto, fu cacciato, ma di tutta questa vicenda non esiste nessun documento, nemmeno relativo alla sua iscrizione al SIM, per cui è difficile capire l’esatto svolgimento della vicenda, e non è l’unico caso nella vita di Siviero.
È comunque vero che dalla seconda metà degli anni ‘30, in seguito a eventi quali la Guerra in Spagna, le leggi razziali del ‘38, l’abbraccio mortale del fascismo con nazismo, probabilmente la conoscenza in Germania delle feroci persecuzioni degli ebrei, la fede di Siviero in Mussolini entrò in crisi, tanto da allontanarsi sempre più dal regime fascista.
Dopo aver partecipato alle negoziazioni per le restituzioni post belliche, tra il 1963 e l’83 Siviero, nelle vesti di Ministro plenipotenziario della Direzione Generale Antichità e Belle Arti, oltre a continuare a rincorrere per l’Europa le opere disperse con la guerra, si occupò anche di una nuova sventura tutta italiana, i furti e gli scavi illegali, e anche in questo campo molte furono le imprese che riuscì a portare a termine coi suoi metodi spicci e personali, che gli creavano così tanti nemici. Tra tutte le operazioni, possiamo citare il recupero negli anni ‘70 delle due tavolette del Pollaiolo degli Uffizi ritrovate a Los Angeles.

Nella fase finale della sua vita cercò in tutti i modi di allestire in Palazzo Vecchio a Firenze un Museo delle Opere Trafugate, che suggellasse e celebrasse ai posteri la sua vita e la sua opera; ce l’aveva quasi fatta ma dopo la sua morte tutto si bloccherà e niente si farà più.
Rodolfo Siviero morì di tumore il 26 ottobre 1983 e la Delegazione italiana per le restituzioni, nata nel ‘53, venne sciolta nel 1987. Siviero è sepolto nella Cappella dei Pittori in SS Annunziata

Donò la sua abitazione e la sua collezione alla Regione Toscana per farne un museo. Inaugurato nel 1992, il Museo Casa Siviero a Firenze sarà completamente ristrutturato e ampliato a partire dal marzo 2024 in modo da occupare tutti e tre i piani della palazzina dove aveva vissuto, con una totale riorganizzazione degli spazi per finalmente rendere fruibile a tutti la sua opera e la sua collezione. E far conoscere a chi dobbiamo ancora e sempre dire grazie.
