L’eredità Bardini
Il 1922 vide, nel mese di settembre, la morte a Firenze dell’antiquario Stefano Bardini, personaggio eccezionale di cui abbiamo cercato di tratteggiare un ritratto nel precedente articolo e che approfondiamo in questo, visto che proprio quest’anno cade il centenario della sua scomparsa.
Definire Stefano Bardini solo come antiquario, nell’accezione contemporanea, è un po’ riduttivo, poiché “Stefanaccio”, come lo chiamavano i fiorentini, è stato decisamente molto di più, basti dire che praticamente è lui a inventare il mercato internazionale dell’arte, grazie ai suoi rapporti prima di tutto con Wilhelm von Bode, e poi con tutti i più grandi collezionisti del mondo, come Isabella Gardner di Boston, John Pierpont Morgan di New York, John Johnson di Filadelfia, i coniugi Jaquemart-André di Parigi, il principe Giovanni di Liechtenstein, Albert Figdor di Vienna, senza contare i Musei di Berlino, il Louvre, il Victoria and Albert e molti altri. Si calcola che nei soli Stati Uniti, Bardini abbia venduto circa 650/700 dipinti!
Ma quello su cui ci soffermiamo oggi è l’avvincente storia della sua eredità.

Stefano Bardini muore nel suo palazzo in piazza de’ Mozzi, dove soltanto 2 giorni prima aveva fatto testamento, lasciando il palazzo che era sede della sua galleria (escluso l’ultimo piano) e il suo contenuto alla città di Firenze. L’ultimo piano lo lasciò ai figli Ugo e Emma, così come la meravigliosa Villa Bardini col suo fiabesco giardino.
Non sono chiare le motivazioni di un così beau-geste: rimorso per tutto quello che aveva disperso? Desiderio di autocelebrazione? Amore per Firenze (così mal ripagato)? Nel testamento aveva scritto “per l’affetto” che lo legava a Firenze “e per dimostrare il culto” che aveva “sempre nutrito per la sua storia artistica”. Quello che è certo è che i fiorentini, come non avevano mai amato il “re dei calcinacci”, non amarono nemmeno la sua eredità.
Così, quando nel 1925 inaugurarono il Museo Civico Bardini, era stato cancellato tutto lo spirito dell’attento collezionista. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Stefano aveva infatti chiuso il negozio, licenziato tutti i dipendenti e si era completamente dedicato ad allestire il proprio museo.
Niente da fare: dopo la sua scomparsa fu completamente cancellata la sua “scenografia”, le opere furono riallestite secondo un mero percorso cronologico-didattico, rimbiancato il suo bellissimo “blu Bardini” e il tutto profondamente normalizzato, anche con l’inserimento di altre opere non provenienti dalla sua collezione.
D’altra parte, bisogna ricordare che i pochi italiani che negli anni precedenti avevano avuto l’occasione di vedere l’allestimento delle sale di vendita del palazzo di Bardini, con quell’intenso azzurro che Stefano voleva perché su quello risaltavano tutte le sue opere nei diversi materiali, e che alla fine prese il nome proprio dall’antiquario, lo definirono ”un colore da far alleghire i denti”, “un gustaccio da antiquario antiquato”.
Stefano Bardini abbiamo detto che aveva una clientela di altissimo profilo mondiale, e la scelta di quel blu cobalto era proprio rivolta a quel gusto internazionale, colore per il quale si era ispirato anche ai sontuosi palazzi di San Pietroburgo, che gli aristocratici russi presenti tra Firenze, Pisa e Roma si erano portati dietro, e che vicino a Firenze, nel centro di Pisa, aveva una magnifica testimonianza nel Palazzo Blu sui lungarni, che nel 1773 ospitò il Collegio Imperiale Greco Russo.
Sarà forse stato per aver visto questo scempio dell’opera del padre che Ugo, il figlio, quando morì nel 1965 senza eredi, lasciò un testamento molto intricato e vendicativo, che ha richiesto 30 anni per permettere allo stato italiano di risolverlo.

Ugo Bardini nominava erede lo Stato Svizzero, in seconda istanza la Città del Vaticano, e solo in terza battuta lo Stato Italiano, precisamente il Ministero della Pubblica Istruzione, con una condizione: lo stato avrebbe dovuto vendere tutti i 30mila pezzi della collezione (censita fra il 1975 e il 1979) e gli edifici dell’eredità (valutati in 33,5 miliardi di lire dell’epoca) per acquistare due, o almeno un capolavoro universale non posteriore al XVI secolo degno di essere esposto agli Uffizi se pittura o al Bargello se scultura.
Ma come poteva essere venduta una intera eredità che comprendeva infiniti pezzi di inestimabile valore? Come potevano essere venduti palazzi ed edifici storici e monumenti italiani? La beffa e la vendetta pensata da Ugo Bardini forse era proprio quella: si aspettava che lo Stato italiano applicasse la legge di tutela e vincolasse l’eredità per non disperdere il patrimonio. La strada era in salita, e le soluzioni difficili da trovare, tanto che si dovette aspettare ben trent’anni affinché l’intricata matassa venisse dipanata.
Fu Raffaello Torricelli, avvocato fiorentino notissimo per il suo impegno a favore di Firenze e del suo patrimonio, a organizzare nel 1985 un convegno su questo problema, e così riuscì a riaccendere i riflettori su questa vicenda.
Finalmente, dieci anni dopo, nel 1995, grazie al governo tecnico del fiorentino Lamberto Dini, dove come ministro dei Beni Culturali c’era il fiorentino d’elezione Antonio Paolucci, e grazie all’appoggio di personalità quali Valdo Spini, Sandra Bonsanti e Giovanni Berlinguer, e anche dall’allora Presidente della Commissione Cultura alla Camera Vittorio Sgarbi, si ottenne il miracolo, con il decreto numero 120 del 6 marzo 1996. Con quel decreto lo Stato sostanzialmente riscattava l’eredità, e nelle pieghe della finanziaria del 1996 trovò e stanziò 35 miliardi lire destinati all’acquisto delle prestigiose opere richieste dal testamento di Ugo, per districare finalmente l’eredità Bardini.
Antonio Paolucci istituì una commissione composta da Cristina Acidini (Soprintendente ai Beni Artistici e Storici Firenze), Evelina Borea (dell’Ufficio Centrale Beni Culturali del Ministero), Marco Chiarini (direttore della Galleria Palatina di Firenze) che doveva individuare le opere da comprare sul mercato internazionale. Il tempo a disposizione non era molto, il governo Dini era un governo tecnico e come tale temporaneo, bisognava portare a termine velocemente l’intricata situazione per il bene di tutti. La disponibilità di 35 miliardi di lire per acquistare due opere d’arte fece inevitabilmente molto rumore in tutto il mondo. Collezionisti internazionali si mossero da occidente e da oriente, proposte arrivarono da antiquari, da galleristi, da privati e da mercanti pubblici. Nonostante tutto questo movimento, trovare opere da 15/16 miliardi l’una non era cosa semplice, anche perché il mercato per i grandi nomi del rinascimento era più alto.
Vittorio Sgarbi ha poi raccontato i dettagli della caccia al tesoro, tutt’altro che facile. Alla fine furono acquistati da un antiquario torinese due comparti di un polittico di Antonello da Messina dipinto per la chiesa di San Giacomo a Caltagirone, in uno stato conservativo non ottimale, raffiguranti una Vergine con Bambino incoronata da angeli, e un San Giovanni Evangelista, e dalla Curia Fiorentina lo stemma Martelli, all’epoca unanimemente attribuito a Donatello, che oggi la critica ha spostato più verso Desiderio da Settignano.
Lo stemma fu smurato dallo scalone del palazzo in via Zanetti dove era rimasto per 500 anni e oggi è esposto al Bargello nel Salone di Donatello, mentre l’Antonello da Messina è agli Uffizi, dove nel 2015 è stato possibile ricostituire l’originale trittico grazie al “deposito decennale rinnovabile” del San Benedetto che era al Castello Sforzesco. In cambio gli Uffizi hanno ceduto con la stessa formula una Madonna con Bambino del lombardo Vincenzo Foppa.
E così si concluse l’annosa questione. Villa Bardini col suo favoloso giardino di quattro ettari, fu completamente e finalmente restaurata grazie all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, che mise a disposizione ben dodici miliardi di lire. L’Ente ha poi firmato una convenzione con lo Stato e ha costituita la Fondazione Bardini – Peyron che gestisce la villa e il giardino finalmente restituiti alla collettività, e a Firenze.
